Se la trota avesse gambe

13 Novembre 2003
17 minuti di lettura

di franc’O’brain

Ma, all’improvviso, un orrendo sgomento la prese dell’odioso Ade. Rimase incerta per lungo tempo, e a lei tutte le care gioie della vita apparvero. Si rammentò delle dolcezze che toccano ai vivi, si rammentò della sua lieta giovinezza di fanciulla e il sole le parve più bello a vedersi di prima…

Da: Il Sogno di Medea, di Apollonio Rodio

Camminava spedito, con un’espressione amara che gli raggrinziva la faccia. Il soprabito aperto gli svolazzava ai lati; in mano reggeva un mazzo di fiori come un cespo d’alghe. Sbagliò strada due volte, tre volte tornò sui propri passi. Non era la sua città, quella. Non il suo continente. Non più. Si sentiva morire, dentro e fuori. Ma morire non serve a un cazzo.

Veniva dall’America. E si vedeva. Si vedeva dalla mascella, dal girovita, dagli occhi. Occhi di animale braccato. In America regna la cultura della paura e gli americani temono le cose sbagliate: i puertoricani, gli alberi, i cinesi, il cyberporno, la vecchiaia, il sesso…

"No, io il sesso no" si disse lui. Ma ne era sicuro? Con una smorfia di strazio, che spaventò alcuni passanti, pronunciò un nome: «Albertine».

Sovente, quando pensava a lei, gli tornavano in mente figure gloriose di donne vendicative, eroine sanguinarie della storia e della mitologia – in primo luogo le uxoricide, le mangiatrici di uomini: Giuditta che taglia la testa a Oloferne; o la giovinetta che, per salvare il suo popolo, pianta un chiodo nella testa del comandante nemico…

No, Albertine non era così. Lei non aveva l’indole dell’Amazzone. Impossibile che nel frattempo fosse diventata una guerriera, una eviratrice… Almeno, Cicci così sperava. Sicuro, era trascorso molto, troppo tempo da quando… e nella vita tutto può accadere. Ma a lui, a Cicci, piaceva immaginare Albertine docile come allora, magari anche con una certa propensione al dolore, al sacrificio estremo. Mentalmente, la paragonò ad altre celebri primedonne, regine di sofferenza offuscate dalla polvere dei secoli: la fiera Cleopatra che si suicida facendosi mordere da un serpente; Lucrezia che si conficca un pugnale nel petto dopo essere stata disonorata da un romano…

All’improvviso gli apparve la casa. Sapeva che era proprio quella: rappresentava il trait d’union tra il presente così vuoto e gli acerbi, eppur rimpianti, anni della gioventù. Alzò gli occhi sulla facciata e violente scariche ormonali lo fecero fremere come un debosciato.

Albertine si sollevò tutta gocciolante, prese l’asciugamano e scavalcò l’orlo della vasca. Vi si sedette, quindi iniziò a frizionarsi braccia e gambe. Che ora era? Tardi. Attendeva una visita alle cinque e l’appartamento era uno sconquasso. Uscì dal bagno nuda, con le spalle imperlate d’acqua, e cercò di mettere un po’ d’ordine. Per le stoviglie sporche in cucina non ci fu problema: le lasciò scivolare dentro la lavastoviglie, e nella furia vi gettò anche una pezzuola lurida. Poi passò al soggiorno; raccolse le riviste e le mise nell’apposito portariviste, lustrò la fruttiera, accostò una finestra. Fatto! Le quattro e mezza. Restava ancora del tempo.

Tornò nella vasca da bagno e, immersa nell’acqua come in un liquido amniotico, prese in mano un romanzo. Lesse:

"Mi gettò sul letto, premette con entrambe le ginocchia sulle mie cosce, aprendole; mi tenne un fazzoletto sulla bocca, cosicché nessuno potesse udire le mie grida. Poi spinse il suo membro in me. Sentii come bruciava, faceva male, molto male…"

Accidenti, come le suonava familiare! Il libro raccontava la vicenda di Artemisia Gentileschi, pittrice del Rinascimento. Continuava:

"Come finì, afferrai un coltello e mi precipitai su di lui, con le parole: Voglio ucciderti con questo coltello, ché hai macchiato il mio onore!"

Albertine richiuse il libro e pensò a lui. Quando era arrivata la sua chiamata, se lo era immaginato in piedi nei 113 cm. quadrati della cabina telefonica con il medesimo aspetto di allora (anni-luce prima): un sedicenne magro e nervoso dalla capigliatura ribelle, lunghe ciglia brune e labbra piene, quasi tumide. In cuor suo, pregò che non fosse mutato di molto.

Poco prima dell’ora fatidica, andò in camera da letto e trasse dall’armadio un abito da sera, che indossò direttamente sulla pelle nuda. Di solito girava per casa completamente svestita e, se riceveva visite, si metteva capi d’abbigliamento lunghi fino alle caviglie; ma capitava di rado che qualcuno venisse a trovarla.

Stava finendo di truccarsi quando il campanello squillò. Aprì, e l’uomo che era sulla soglia crollò immediatamente ai suoi piedi, simile a un cavallo fulminato. Accidenti, no, si disse. Odiava le scene patetiche. E la serata era appena all’inizio…

Cicci non si muoveva. Per un istante, Albertine credette che fosse esanime. Gli pose una mano sulla testa (che presentava un evidente inizio di calvizie) e lo scrollò. Lui parve riprendersi. «Scusa», le disse. E aggiunse, come leggendo da un referto medico: «Un po’ troppo alcool nelle coronarie…»

Si rimise all’impiedi. Era cambiato, eccome se lo era! Dal Narciso di una volta si era trasformato in un giovanotto dai fianchi donneschi e con il sedere grande come il New Mexico. Portava un maglione largo: evidentemente perché si vergognava delle "tette" che nel frattempo gli erano spuntate. Ad Albertine sembrò il tipico americano ipervitaminizzato.

«Ho faticato a trovarti», riprese lui, porgendole il mazzo di fiori. La sua voce era profonda, non sgradevole. «Purtroppo, questo schifo di cittadina è rimasto lo stesso: chiedere in giro il tuo indirizzo e il tuo recapito telefonico è stata una tortura. Alcuni mi hanno riconosciuto, sai. Quante me ne hanno dette! E quel che dicono di te…»

Dopo aver finito questo discorso, si ricompose alla meglio e, per la prima volta, focalizzò le pupille su di lei. La sua bellezza gli mozzò il fiato. Albertine era quel che si dice un gran bel pezzo di figliola: alta e slanciata, la capigliatura che le ricadeva sciolta sul fondoschiena, le forme sinuose di un’anfora egizia. Solo gli occhi erano rimasti uguali a prima, occhi di bambina, grandi, sospettosamente a mandorla.

«Entra pure, non restare impalato lì», lo esortò lei.

"Finanche la sua voce è meravigliosamente sensuale" constatò Cicci, mentre la seguiva nell’anticamera che aveva le dimensioni di uno sgabuzzino. Proseguì: «Ormai capisco a malapena il dialetto di qua. Mi hanno farfugliato qualcosa circa nostro padre: che starebbe male… Se non ho frainteso, lui sarebbe confinato su una sedia a rotelle».

«Ha la gotta», minimizzò Albertine con una scrollata di spalle.

Era stupita che Cicci si preoccupasse della salute del vecchio. Quando la loro tresca era stata scoperta, i genitori avevano incolpato lui. La madre gli aveva preso le misure col mestolo; il padre, più drastico, aveva usato i pugni. Urla da spaccare le mura!… In pratica lo avevano costretto ad andarsene. Tutti quanti: i genitori, il parroco, i vicini… E Cicci se n’era andato. Persino più lontano di quanto fosse stato lecito attendersi.

Albertine ricordò che, nel vederlo partire, lo aveva paragonato a un pulcino che abbandona il nido. Oh, quanto aveva pianto! Si era sentita scendere addosso il velo opprimente della vedovanza. E non c’era stato verso di consolarsi al pensiero che il fratello era solo uno dei tanti che, giorno dopo giorno, si univano alla già folta schiera di uccelli migratori: tordi, trampolieri, rigogoli, batticoda… Tutti in volo verso altre terre, verso altri meridiani.

Come furono nel soggiorno, Cicci prese a guardarsi intorno con sincero interesse. La luce – notò – non illuminava quell’ambiente, ma si coagulava in una crosta gialla sui vetri delle finestre. Le pareti erano di un verde semaforico. Pochi i mobili, e banali.

Si tolse il soprabito. Faceva un caldo… «Beh, come stai?» chiese alla sorella.

«Come vedi…»

«Esci? Hai amici? Il fidanzato?»

«No, no, no», rispose lei, chissà perché ridendo.

«Questo tuo appartamento… Come fai ad abitarci? Vivi come in un acquario!»

«A me piace.»

«Non esci mai? Devi sentirti sola.»

«È in mezzo alla gente che mi sento sola», ribattè Albertine. Poi scrollò le spalle. «Che cosa c’è fuori? Confusione e nient’altro. Occhi e bocche e mani a non finire. Tutta questa umanità! Così tanta e così varia, ma anche così poco umana!»

Prontamente, un dubbio assalì Cicci: sua sorella era normale? Gli avevano già mormorato che era andata ad autorecludersi in quella casa di bambole, che non vedeva nessuno e che nessuno la vedeva… Mentre si sedeva sul divanetto, la squadrò come per farle la radiografia. Notò, dal modo in cui lei piegava la testa, che aveva un accenno di cervicale. "E come mai i suoi capelli sono umidi?" si chiese. No, non capelli: alghe, piuttosto.

Da bambina, Albertine era stata una precoce ribelle. Sempre imprevedibile, con momenti di spleen totale. Ovviamente, a Cicci era piaciuta proprio per questo.

La sentì chiedere, mentre gli si accomodava di fronte: «Non mi racconti niente?»

«Mah», sillabò lui. «Si lavora…»

Davvero? Si lavora? In realtà, per anni non aveva fatto che vagare da un posto all’altro in stato di semi-ebbrezza o di… semi-sobrietà. Finché l’amico psichiatra dell’A.A. (Anonima Alcoolici) non gli aveva suggerito di compiere quel viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio. "Go back to your roots" lo aveva esortato l’amico, un idraulico dell’anima.

Cicci si terse la fronte. Stava sudando come un porco… Fronteggiò la sorella. Per non essere costretto a parlare di sé, cominciò a descriverle l’America; o, meglio, il Mid-West, dove si era impiantato. Albertine seguiva il suo monologo con palese attenzione, ma lui pensava a tutt’altro mentre blaterava. No, decretò: no, lei non soffre di schizofrenia o di disturbi di percezione. Tuttavia… Se ne sta reclusa… E si veste in questo modo! Che è quasi come essere nuda. Un momento… Certo! Sotto è nuda!…

Si passò il fazzoletto sulla nuca madida di sudore, quindi tirò fuori un pacchetto di Indian Spirit. «Mi dài un posacenere?» la pregò, accendendosi uno di quei bruni bastoncini. Albertine annuì; ancheggiò verso il cucinino, e Cicci la scrutò come un falco. "Non c’è dubbio: non porta alcun indumento intimo. È così maledettamente sexy…" Suo malgrado, ebbe un’erezione tremenda.

Accavallò le gambe in preda all’imbarazzo mentre lei tornava con un sottotazza e gli diceva: «Butta la cenere qui». Ricominciò a enarrarle le meraviglie della sua patria d’adozione. Nonostante parlasse tutto serio, ad Albertine scappava ogni tanto una risarella.

"Galleggia di certo in una split reality" si disse Cicci. "Poiché vive al centro di un mondo di maschi, reagisce a ogni cosa, a ogni parola o avvenimento, più con costernazione che con fastidio. Dopo lo scandalo, poteva scegliere tra due strade: entrare in un convento o fare la puttana. Ma è riuscita a scovare una terza strada: se ne sta chiusa qui, che forse è anche peggio che essere monaca. Scrittrice. È diventata una scrittrice: un nome famoso e… completamente privo di volto. Perché fa la preziosa, perché non concede mai interviste. Strano però. E strano anche questo caldo umido!"

Mentre continuava a riferirle dell’America e degli americani, andava assumendo, senza volerlo, un accento spiccatamente anglosassone. E il riso di Albertine cresceva, cresceva. Una risata equiparabile a un’emorragia. Cicci si sentì montare la voglia al cervello, con violenza. "Bestia! Bestia!" si disse. Ma non poteva opporsi alla propria natura. La desiderava fortemente! Doveva forse vergognarsi per questo?… Come mille altre volte, per cercare di giustificarsi si richiamò in mente l’amore di Dante per la sorella Tania. Ci avrebbe scommesso: i due Alighieri avevano dormito insieme! E quante altre coppiette di consanguinei si facevano beffe dei tabù e, notte dopo notte, infrangevano le norme vigenti, praticamente sotto il naso dei genitori? No, non solo la notte. I "giochi" che lui aveva giocato con Albertine, ad esempio, si erano svolti quasi esclusivamente di pomeriggio…

«E i fast food!» si sentì esclamare. «Negli States sono una vera e propria istituzione. Addirittura più importanti delle chiese. Sempre affollati. Ecco spiegato il perché tanti americani sono mostruosamente in sovrappeso.»

Albertine continuava a sanguinare dalla bocca: «Ah, ah, ah!» Poi, asciugandosi le lacrime, gli domandò: «E le donne?»

Cicci arrossì violentemente. Si udì borbottare: «Oh, conosco una…»

«Sì?» insisté lei, sporgendosi in avanti. Lui le guardò il seno, si leccò le labbra, proseguì:

«Una dell’Iowa. Una ragazzotta dalle gambe un po’ pelose…»

Albertine esplose in un riso formidabile, una fontana di sangue.

Cicci, chissà perché offeso, tuonò: «Tu invece scrivi, vero?»

Lei si ricompose, assumendo inconsapevolmente una posa provocante, il busto obliquo, un gomito appoggiato al bracciolo della poltrona, una mano a reggere il mento. «Scrivo», confermò, con tono inaspettatamente basso; un’ammissione straziacuore, la sua. A quanto pare, Cicci aveva toccato un tasto stonato. Ma sul volto della giovane donna aleggiava comunque un rimasuglio di sorriso.

Scriveva, sì. Dappertutto recensivano positivamente i suoi romanzi; la osannavano addirittura. Intrecciavano favole su questa misteriosa scrittrice "capace di parlare direttamente all’anima". Le aprivano le porte del Parnaso e tenevano in serbo per lei una corona d’alloro, un trono vuoto… In ogni luogo del mondo, inclusa l’America. Solamente in quel paesino di merda sembravano detestarla. Ma già: lì regnava il Medioevo…

In luoghi come quello, una donna che crea, che pensa, risulta oltremodo "pericolosa". Tante opere di artiste, al loro apparire, vengono ritenute una sorta di apocalissi culturale e le loro autrici guardate con profondo sospetto. In certi ambienti, ammettere che il cervello di una donna può essere superiore a quello dell’uomo è tuttora un’eresia. Non si dice infatti "homo sapiens" anziché "foemina sapiens"?

«A proposito di scrivere», fece Cicci. «Probabilmente qualche volta ti sarai chiesta come mai non mi sono fatto vivo nemmeno con una lettera…»

«Non solo qualche volta», ammise Albertine. «Già. Come ti giustifichi? Potevi essere morto e io non lo avrei saputo! Dieci anni…» disse, e gli smeraldi dei suoi occhi si accesero di una luce da abissi marini.

«Dieci anni», echeggiò Cicci, trasognato. In realtà aveva creduto che fossero di più. Erano un’eternità, ad ogni modo. La memoria ora spalancava definitivamente le sue cataratte, cedendo ai colpi degli ormoni impazziti. Dieci anni e fischia…

La fissò. Si fissarono. E d’un colpo compresero che tutto il tempo intercorso non era servito ad allontanarli l’un dall’altra. Anzi… Come per magia, le loro mani si toccarono, i corpi scattarono verso alto. Si avvicinarono a distanza di fiato. Le loro bocche si unirono.

Un bacio casto, dapprima. Poi un bacio con la lingua.

MALATO, si disse Cicci. Eccoti un titolo per un nuovo libro, sorellina. Lo senti? Senti quant’è duro? MALATO. Un tumore inestirpabile; una millenaria peste lombare. Ma la signorina non capisce. Lei non ascolta. Semplicemente perché non ha orecchie.È al cospetto di questo mio amore acciarito, di questa voglia grossa e dura, che tutta la letteratura fallisce, che fallisce la filosofia di due millenni; e non di fronte alla

"discriminazione delle donne" o a quell’altra bullshit di cui scrivono i giornali e blaterano alla tele. Allora, bella mia, ti va il tuo brother marca U.S.A.? È diventato grassoccio, eh? Braccia e gambe da rammollito… ma per il resto sodo come una roccia, e te ne sei ben accorta! Parla un po’ sghimbescio, lui, eh, bellezza? "Mooltoe coententoe di rivaedertei." E vaneggia della fantastic America allo stesso modo in cui suo padre, il famoso ciabattino, vaneggiava del negozio di scarpe che un giorno avrebbe inaugurato. Cicci l’emigrato. Anzi: il rinnegato! Fuck you, god-forsaken place filled with damned sons of a bitch! Ma, a dispetto della distanza, la fissazione non è mai morta, e tale è rimasta fino ad oggi: un pensiero morboso, ossessivo; un’oscenità biblica che non conosce barriere…

Quante notti, nella mia solitudine al neon, buttato sul lenzuolo pieno di macchie di ketchup, non ho pensato a TE! Uno spreco di sperma invero oceanico… Ma loro, loro non vedono quello che mi hanno fatto, che ci hanno fatto? Perché ci hanno separati? MALEDETTI!

Albertine era tenera, sinuosa, dolcissima. Lui, Cicci, una fiera. Ma Cicci si staccò, si costrinse a staccarsi, dall’abbraccio di quella magnifica femmina, di quell’estranea conturbante. Sua sorella? Difficile crederlo…

«C’è da bere qui?» gracchiò.

«Acqua», disse lei, per nulla irretita o altro. «O preferisci del caffè?»

«Vada per l’acqua.»

Mentre Albertine andava a prendere una bottiglia, Cicci si aggiustò il cavallo dei pantaloni. Non era mica venuto fin lì per rivivere l’eros proibito! O sì? Lei gli si era subito buttata addosso: prova evidente di pazzia. Era chiaro che la sorella voleva rendere memorabile il loro incontro, celebrando una romanzesca danza in mezzo alle fiamme dell’inferno e non solo accontentandosi di un tenero cin cin di caffè da portare con sé nella vecchiaia.

Il nome sull’etichetta della bottiglia diceva: WAI KIKI. Cicci pensò: "Fuck!" e si versò un mezzo bicchiere. Un bel po’ di acqua gli cadde sui pantaloni. Imprecò: «Shit!»

La ragazza lo osservò sorridendo. Era un coniglio maschio. Un coniglio, per davvero: e dunque sfuggevole. Sospirò: scimpanzè, delfini ed elefanti sono animali molto più facili da addestrare di un coniglio.

Gli si accucciò ai piedi. «Rimarrai qui? Voglio dire: su questa sponda dell’oceano?»

Cicci alzò le spalle. «Beh… Per me non esiste più un continente europeo dove poter tornare. Esisti soltanto tu.» Quindi, con gli occhi fissi nel vuoto: «Non è stato certo agevole, sai. Eppure sono rimasto in vita per tutta la vita. C’è quasi da non crederci. Io non ci ho mai creduto! Mi domando come fanno gli altri a sopportare… tutto questo.»

Per la prima volta, Albertine assunse un’espressione lievemente contrariata. «E non ti chiedi come ho fatto io?» disse. «Come sono riuscita a convivere con la vergogna, con le accuse?»

«Già. Come hai fatto?»

Come aveva fatto? Lei reclinò il capo. Era stata la schiava di un dolore talmente profondo che, quando scendeva in strada, il sole si fermava intento, a metà cammino; la terra si piegava; e persino le tigri piangevano con lei, e naturalmente la colomba e l’usignuolo. Sospiri tanto caldi e disperati da far avvizzire le rose, i gigli, le viole. Il sole impallidiva e, per pietà di lei, i fiumi si fermavano, il mare si acquietava. Finanche le pietre lacrimavano al suo passaggio…

A mantenerla in vita era stata la speranza di rivederlo. Ogni giorno aveva rinnovato il giuramento (fatto a se stessa, prim’ancora che a lui) di non lasciarlo più da solo, quando – e se – si fossero ritrovati; e di procurargli con la propria compagnia un godimento indimenticabile.

«Come ho fatto? Presto detto: quando i dispiaceri sono tanti, o si muore o si finisce per non sentirne più il peso.»

Cicci chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro. Era esausto, il sudore gli sgorgava dalla fronte, dalle ascelle, dalla schiena. Sentiva le chiappe strofinare l’una contro l’altra immerse in un fluido oleoso.

Ma anche Albertine cominciava a stancarsi. Lei aveva un’autonomia di solo due-tre ore, dopo le quali doveva tornare a buttarsi sul letto o sul divano. Oppure infilarsi nella vasca da bagno. In due-tre ore di attività, bruciava tutto il cibo ingerito nella restante parte della giornata.

Si alzò per andare in cucina e prepararsi un frullato di frutta.

Cicci si rimise in piedi. Le ginocchia gli tremavano per l’eccitazione; e non solo per l’eccitazione. Pochi istanti prima, mentre era tornato ad ammirare i seni di Albertine -"due coni d’amianto" – , aveva intravisto le membrane verdognole che le crescevano fra le dita dei piedi. Che cosa gli accadeva? Era forse in preda ad allucinazioni, a un attacco di dementia praecox? La udì canticchiare mentre stava a trafficare di là: un gorgoglio liquido… ittico… che gli fece rizzare i peli sulla nuca.

Forse non avrebbe dovuto affrontare quel viaggio assurdo. Si era lasciato trascinare dall’eccessivo testoterone, oltre che dall’impulso di vendicarsi -ovvero dalla presunta necessità di ristabilire la propria mascolina identità alla faccia di quegli stupidi paesani. Probabilmente, il canyon temporale e la lontananza fisica lo avevano fatto addentrare fin troppo in fondo in un’archeologia dei sentimenti che oggi non aveva più valore. Cominciava a vederci chiaro, e dunque a "vedere" sul serio, finalmente, quella donna. Mentre Albertine ritornava nel soggiorno, reggendo in una mano la boccia di vetro piena di succo di frutta, lui si accorse – tramite la trasparenza del suo abito da sera -che persino fra le cosce le cresceva quella strana membrana verdognola.

Era combattutto tra il precipitarsi fuori o il rimanere in quella stanza e… impazzire. La sua parte raziocinante, insieme alla sua evidente natura da coniglio, lo faceva propendere per la prima soluzione. La porta non era lontana: raggiungerla con un balzo, scagliarsi a rotta di collo giù per le scale e dileguarsi sarebbe stato un tutt’uno. Del resto, ormai sopportava a malapena quel calore d’inferno, e le piante che abbellivano il soggiorno non aiutavano certo a dare un senso di frescura, un’idea pur piccina di umbratile beneficio… tutt’altro: sembravano avvezze a crescere in altre regioni, in un clima esotico; qui erano buone solo a succhiare aria, boccheggiando, rubandola ai boccheggianti umani.

"No, non posso correre via" stabilì Cicci. "È mia sorella, infine."

Si tolse il maglione e lo gettò a terra. «Metto un po’ di musica», annunciò e, mentre si avvicinava all’hi-fi, si guardò intorno con occhi acuti. Le finestre avevano i doppi vetri, le tapparelle (anche quelle dell’unica finestra accostata) erano abbassate, i serramenti nastrati e sigillati, e sotto le porte erano dislocati serpentoni di panno imbottito.

Inserì nel lettore il compact di un concerto di Shostakovic. Mentre la musica partiva, passò in rassegna gli altri dischi. Uno raccoglieva composizioni di un certo Georgii Vasilyevic Sviridov, classe 1915. "Ha gusti particolari, la cara sorellina" si disse. E, di nuovo, si chiese se lei fosse normale. "E io?" sentì risuonare nel proprio cranio, tra le molecole di un suono orchestrale a dir poco bizzarro. "Sono normale, io?"

Guardò la copertina di un altro Cd. Il solista era Franz Koglmann, viennese, soffiatore di tromba. Infilò il Cd nel lettore, lo fece partire; risultò essere un misto tra Schönberg e il be-bop. Music for fishes.

Avvertendo un lieve tocco sulla spalla, si volse di scatto. Sull’incommensurabile massa di carne grassa e umida, la mano di Albertine appariva sottile ed evanescente. Guardò tra le dita di lei: vi erano membrane verdastre.

L’alito della sorella si avvolse intorno a un suo padiglione auricolare. «Ora potrai vedermi per come sono nella realtà.» La sua voce era dolce, densa, suasiva.

«Non sei tu!» esclamò Cicci, pieno di spavento. «Non sei mia sorella!»

«Davvero? Potrei dire la stessa cosa di te: non sei Cicci, non sei mio fratello. E, effettivamente, non lo sei. Sei solo la sua ristampa aggiornata…»

Cicci si girò a osservarla. Nessun dubbio: minuscole scaglie le costellavano la pelle e agli angoli della bocca le si protendevano barbigli appena visibili. In mezzo alle cosce, Albertine aveva quel velo cartilagineo sviluppatosi come a protezione di una virtù tanto antica quanto bugiarda. Fece per cacciare un urlo e scappare via, ma di nuovo lo trattenne un pensiero: lui era il fratello di quella creatura, e dunque suo amico per legge di natura. Non poteva abbandonarla.

«Forse dovremmo dimenticare…» cominciò, tremante.

«Niente va dimenticato», lo contraddì Albertine, «ma tutto va perdonato.»

E lo sbaciucchiò con tenerezza.

Ciccì ansimò: «Non so se potrò… se sarò in grado di…»

«Oh, anche allora non fu facile», gli ricordò lei. «Non lo facemmo tutto in una volta. Ci riuscimmo solo dopo aver provato e riprovato. E proprio per questo fu così bello!»

Cicci ormai era arrapatissimo, si sentiva scoppiare dentro e fuori. La donna-pesce lo faceva impazzire, causando in lui un’eruzione di sensazioni freudiane. Ancora covava qualche dubbio, ma solo sul proprio conto: in tutta sincerità, non si reputava veramente all’altezza di poter soddisfare quell’essere strabiliante. Era inoltre conscio di avere un aspetto tutt’altro che piacevole. Sentiva di somigliare a una michetta immersa nell’acqua e lasciata a raggrinzire al sole; una michetta di morbida consistenza, la crosta leggermente pastosa, la vita interiore umidiccia…

"Una delizia. Tu sei come sei, e mi piaci da impazzire."

Lesse queste parole negli occhi di Albertine. Immediatamente furono l’una nelle braccia dell’altro, e riconquistarono l’intimità bipolare a cui avevano dovuto rinunciare per oltre un decennio.

E, proprio come accade ai mostri che popolano le profondità oceaniche, non ci fu più bisogno di parole tra loro per lungo, lungo tempo.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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