Dossier Qonk

13 Novembre 2003
19 minuti di lettura

di franc’O’brain

Si era ridotto a una cosa. Niente in lui rammentava l’uomo che un tempo era stato. Le squame rossicce che gli ricoprivano il corpo avevano risparmiato solo la faccia, che era comunque terribile a vedersi: una minuscola protuberanza cartilaginosa rappresentava il naso e due biglie venose si trovavano al posto degli occhi. E la bocca, la bocca… mio Dio… quella grotta solforosa, piena di stalagmiti e stalattiti, era una bocca?

Quasi sempre se ne stava aggiaccato sul pavimento. Non che si sentisse infelice. Per prima cosa, non aveva più problemi di sonno. Nella cella aveva tutta la calma che gli occorreva. Al fetidume dell’ambiente si era abituato, così come all’inarrestabile mutare delle proprie fattezze. Sentiva la colonna vertebrale allungarsi e irrobustirsi, mentre i bulbi oculari sboccavano del tutto dalle orbite.

Alcuni passi risuonarono nel corridoio. Si riscosse. Le catene che gli serravano gli arti tintinnarono, e trucioli di legno frusciarono sotto di lui. Uno sportelletto si aprì in basso a destra nella porta blindata e una mano magra e ossuta (la stessa di sempre, appartenente a un facchino della "BIOMODELLE GmbH") si profilò nell’azzurrescenza elettrica per spingere sul pavimento una tegamata di carne bollita. Nessuno guardò verso l’interno, nessuno profferì parola.

Il piccolo quadrato di luce si rispense immediatamente. Fischi, ronzii, crepitii… e poi il nulla. Il mondo esterno tornava a svanire, implacabilmente. Ogni tanto gli arrivavano alla mente suggerimenti da lontano, immagini sparse, forse memorie. "Vedeva" una donna non più giovane, decisamente sciapita, che si rivolgeva a un bambino dicendogli: «Piangi, piangi, ché ti fa bene». E allora lui, nella cieca oscurità della prigione, si provava a farlo; ma invano.

I NASTRI MAGNETICI / A

L‘isopo è un fiore. Ysop, hyssop. Anche l’isotopo lo è, sebbene i compilatori di lessici sembrano ignorarlo. Quando l’isotopo germogliò dentro di me, smisi d’interessarmi per la vita pubblica così come essa era inscenata nella DDR. Forse fu un errore, non lo so. Ma uno deve trovarsi nelle stesse condizioni per comprendere il mio "tradimento". Non che fossi divenuto un criminale o che so io. Solo, smisi di prendere parte ai raduni, ai podii aperti e alle marce, non sbandierai più vessilli e non mi feci più vedere nelle sedi delle varie associazioni; tanto, il comunismo si cibava di un’illusione di eternità, come i fatti hanno poi confermato.

All’inizio, questa fioritura nascosta non mi preoccupò eccessivamente. Osservavo i fenomeni che l’accompagnavano con il medesimo stupore divertito dei vicini di casa e di altri conoscenti: tenendo tra due dita l’orologio di qualcuno, lo portavo a fermarsi; oggetti di metallo leggero si piegavano senza che io compissi il benché minimo sforzo; la fiamma di un accendino assumeva una posizione obliqua se soltanto la avvicinavo al volto… Si trattava, praticamente, degli stessi giochetti che, fino a poche settimane fa, compivo sui palcoscenici di Novgorod, Uralsk, Krasnovodsk…

Provai scarso fastidio anche quando l’isotopo sbocciò all’esterno, riempiendo la mia buccia di brutti rigonfiamenti e formazioni papulose. Ma, da qualche tempo a questa parte, accadono fenomeni ben più tremendi in e con me, ed è per questo che lascio tale registrazione per chiunque voglia occuparsi del mio caso; e per mia moglie, così che lei si renda conto di cosa mi è realmente successo.

Una nota in margine: il pessimo suono non è dovuto a un difetto del vostro apparecchio o alla cattiva qualità del nastro, ma all’incipiente malformazione della mia laringe. Siate comprensivi, dunque.

Mi chiamo Bernhard Rasch e sono nato in una cittadina del Brandenburgo. Per anni ho lavorato come operaio nell’industria metalmeccanica, ingoiando asbesto e polvere di alluminio; poi mi sono ritrovato a fare il caporevisore in una centrale nucleare, venendo a contatto con sostanze radioattive. Nel periodo di cui racconto, la dose massima di radiazioni consentita, per noialtri "kamikaze" salariati, era di 2,5 millirem al giorno. Io stesso appurai una volta, nell’area attorno alla centrale, valori sui 10 millirem. Durante la prima annata assorbii un totale di 950 millirem, dose tredici volte superiore a quella prevista dai regolamenti.

Avevo avuto fortuna, però, come mi riferì l’ingegnere che coadiuvava l’intera baracca: il mio predecessore si era beccato ben 2000 millirem nel giro di soli dieci mesi.

Il fatto è che gli operai semplici vengono sostituiti di frequente (si tratta per lo più di vietnamesi e di africani, cui tocca pulire la vasca o cambiare le barre di combustibile), mentre il caposquadra rimane lo stesso; fino a quando non si ammala gravamente.

Dopo due anni di servizio, la mia salute continuava a essere buona. Cioè: quando passavo davanti al monitor si accendevano tutte le lampadine, e questo significa che dovevo fare docce su docce: per "purificarmi". Ma alla visita medica periodica non mi erano stati riscontrati disturbi alle ghiandole, e anche il sangue era normale. Lavoravo nella "zona calda", ma naturalmente cercavo di stare il più lontano possibile dal reattore. Impartivo ordini ai saldatori, ai rettificatori e agli addetti alle pulizie, e intanto tenevo d’occhio il pannello di controllo: le valvole e i filtri dovevano funzionare alla perfezione, così come le varie pompe; quando un cavo si spezzava o in un tubo si apriva una falla, bisognava intervenire prontamente. Per le riparazioni di poco conto ci si affidava a un kommando di bravi stranieri. Ma in un paio di occasioni, per via di qualche complicazione o per carenza di personale, dovetti calarmi personalmente nella camera di condensazione. L’incidente più rilevante si verificò quella volta in cui il calore all’interno del reattore aumentò di colpo, la pressione salì e la situazione ci sfuggì di mano, col risultato che un’esplosione squarciò lo scudo protettivo.

In quel caso ci fu una vera e propria ecatombe di forze ausiliarie. No, non morì nessuno, ma il nostro medico ci consigliò di sospendere dall’attività i soggetti colpiti. La contaminazione è un processo subdolo. Il male può manifestarsi anche dopo decenni, e a distanza di così tanto tempo la sua causa non è facilmente comprovabile.

A me dissero: «Tutto a posto. Stai meglio di prima». E mi diedero persino un aumento di paga: un avvenimento rarissimo nell’allora "paradiso dei lavoratori e dei contadini".

I fenomeni collegati alla mia persona assunsero proporzioni grottesche: il pomolo della porta mi diveniva rovente in mano, il solo passare davanti a una radio o a un televisore provocava disturbi nella ricezione delle trasmissioni, e al buio potevo distinguere oggetti di metallo come se fossero stati fosforescenti. Decisi perciò di consultare un medico estraneo alla centrale.

L’infermiera mi introdusse nello studio e indicò una poltroncina di pelle nera situata davanti alla scrivania. Poco dopo fece il suo ingresso il luminare. Mi aveva accordato l’incontro dopo che mi ero dichiarato disposto a renumenarlo con “autentica“ moneta sonante (il marco capitalistico).

Si trattava di un uomo anziano con gli occhiali spessi, il quale, non potendo accumulare un vero e proprio patrimonio a causa delle restrizioni che il sistema imponeva ai professionisti della sua sorta, aveva pensato di fare se non altro carriera diventando il medico curante di alti papaveri del partito.

Si dimostrò essere un tipo parco di parole e dai modi bersagliereschi. «Beh?» chiese, senza salutarmi.

Reggeva in mano una di quelle penne s’una cui estremità è infissa una punta magnetica; l’oggetto gli sfuggì dalle dita, volò in linea retta e venne a piantarmisi sul petto.

«Ecco, vede?» gli dissi. «Io mi sento ottimamente, ma poi succedono cose così.»

32

«Uhm.» Dopo un lungo momento di riflessione, il dottore prillò come una trottola e mi guidò in un ambiente adiacente pieno di svariati strumenti. Senza smettere di adocchiarmi, chiamò all’interfono la sua assistente. Quindi si riprese la penna, staccandola dalla mia camicia con ambedue le mani.

Alcuni giorni e tanti esami più tardi, mi fece recapitare un referto invero laconico: "Malattia professionale." Sotto aveva segnato, a inchiostro rosso: "Per carità, si dimentichi di essere mai stato da me."

La settimana seguente fui arrestato e sottoposto a un terzo grado da parte della Stasi, la polizia segreta del regime tedesco-orientale. Mi trattarono alla stregua di un elemento sovversivo e mi rilasciarono soltanto diverse ore più tardi. «Righi dritto, però!» mi ammonirono. «Proseguiremo a tenerla d’occhio…»

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E così Bernhard Rasch, che era venuto a conoscenza dell’infiammabilità dell’isotopo e dell’irritabilità del neutrone, dovette vedersela pure con le sgradevoli forze dello "Stato di sorveglianza". Intanto avvertiva la pressione aumentare dall’interno; gli arti gli tremavano, accusava difficoltà di respirazione…

I NASTRI MAGNETICI / B

A Natale portai a casa un bell’abete. Normalmente ero solito comprare un alberello artificiale, ma quell’anno volli fare le cose per come si deve. Sarebbe stato l’ultimo vero Natale che avrei festeggiato con i miei, e fu perciò con una certa cerimoniosità che mi misi anch’io ad addobbare l’albero. Dopo che mangiammo il dolce preparato da Kathi (mia moglie) e ci fummo scambiati i regalini di prammatica, uscii con la scusa di volere andare a prendere le sigarette.

Ventiquattr’ore più tardi, Kathi era quasi sul punto di avvisare la polizia della mia scomparsa, quando nostro figlio scoprì il biglietto che io avevo lasciato per lei in cucina, sopra l’acquaio. Solo poche parole, sperando che avrebbe compreso: "Perdonami, ma sono costretto a farlo."

Il 27 dicembre ero a Praga, davanti all’ambasciata della Repubblica Federale Tedesca. Con mia sorpresa, il cortile dell’ambasciata era preso d’assedio da una folla di cèchi, bulgari, polacchi e tedeschi dell’Est che speravano di poter fuggire nell’ “altro mondo“, quello demoplutocratico.

Ben pochi funzionari furono disposti a trattare con noi; cibo e coperte venivano distribuiti fuori dall’edificio dell’ambasciata. Gran parte dei rifugiati, gli illusi, i determinati, erano accampati in quel cortile da diversi giorni. Alcuni di loro addirittura da settimane.

Al pari degli altri, acconsentii anch’io di mettere per iscritto la richiesta di asilo politico; e specificai di avere una zia ad Amburgo, il che era vero.

«Specialista in una centrale atomica? Affascinante!» esclamò una signora dell’ambasciata, leggendo il modulo da me compilato. «E ha per giunta una parente nella nostra Germania!…» Guardandomi meglio, mise su un’espressione perplessa. Le escrescenze che mi costellavano le mani, le guance e la fronte diedero sicuramente adito a tanti quesiti nella sua mente.

Io mi sentivo terribilmente a disagio. Non feci nulla per accattivarmi le simpatie di quell’impiegata. Che mi succedeva? In passato avevo posseduto nervi d’acciaio… La verità è che non volevo più avere a che fare con burocrati di nessun genere, a qualunque parte appartenessero. Già la sera stessa ne avevo le tasche piene. Non volli o non potei attendere oltre un responso.

Mi avevano rifilato un bigliettino con sopra un numero (come a una lotteria popolare, pensai). Appallottolatolo nel pugno, uscii tranquillamente per il cancello principale, abbandonando quel cafàrnao di speranze illusorie.

Lasciai Praga e viaggiai a piedi e con l’autostop e, da clandestino, sulla ruota ferrata, in direzione sud. Chissà che intenzioni avevo! Troppi pensieri mi passavano per la testa, ma, con quei dolori nel torace (era come se tante dita mi adunghiassero i tessuti), l’idea predominante era di sparire per sempre nel buio delle strade di una città del tipo di Tirana.

Il ricordo di quelle settimane è quasi svanito, ormai; oggi so soltanto che, durante l’intera odissea, mi fece compagnia un sospetto: il sospetto che, uguale dove fossi andato o che cosa avessi intrapreso, non sarei potuto scampare a intrighi e rappresaglie politiche.

Capitai, in circostanze alquanto avventurose, a Mustakera.

Mustakera è un villaggio della Bulgaria sul confine con la Slovenia Orientale. Una zona sconvolta da un terribile disastro ecologico. Un contadino ebbe pietà di me (le formazioni sulla mia pelle si erano nel frattempo moltiplicate) e mi offrì vitto e alloggio in cambio di umili lavoretti. All’inizio mi comportai da inetto, ma quando fui meno debole potei davvero sdebitarmi per la sua ospitalità (dormivo sulla paglia, in compagnia delle bestie) azionando con lena zappa e forcone.

A Mustakera arrivai a farmi degli amici, tutti in età molto giovane. Ancora mi rinvengono i nomi di alcuni di loro: Jordan, Spiridion, Wlado Anastassov. Questi ragazzi, curiosamente, presentavano un aspetto non dissimile dal mio; e da qui, certo, la reciproca simpatia. La loro pelle non era rigonfia, bensì -direi -corrosa e come sottoposta a profonde erosioni. A gesti e in un tedesco stentato, mi fecero intendere di essere vittime delle sostanze chimiche presenti nell’aria e nel terreno.

Un giorno Spiridion volle mostrarmi le caverne di Miagura, nelle vicinanze del villaggio. Miagura è piena di passaggi e sale sotterranee che furono dimora di uomini preistorici (com’è testimoniato dai segni incisi sulle pareti). Sull’istante risolsi: «È qui che desidero abitare!» E in effetti, pur rimanendo al servizio del buon, vecchio villico, improvvisai il mio giaciglio in una di quelle cavità rocciose.

Ma ci pensarono le autorità del luogo a farmi sloggiare. Pur avendo subito capito che altro non ero se non un mentecatto, il capo dei gendarmi mi trattò come se fossi una spia pericolosa. Dopo avermi ammanettato, mi accompagnò personalmente a Sofia, dove fui preso in consegna da un rude ufficiale della DDR.

Si ricominciava…

RITAGLIO DI GIORNALE / 1

"Berlino. Completamente nudo, un uomo di circa quarant’anni si è avvicinato di corsa al varco di confine Checkpoint Charlie, riuscendo a passare all’Ovest. Lo sconosciuto (alto un metro e ottanta, capelli biondi corti) si è diretto al punto di controllo spogliato di tutto tranne che di uno slip. Un soldato della DDR ha cercato di acciuffare il corridore rincorrendolo nella zona neutra, ma l’uomo si è sdivincolato e, poco prima di superare la fatidica striscia bianca, ha lasciato cadere anche l’ultimissimo indumento, emettendo un urlo di gioia. Poi ha tentato di continuare a correre, ma due guardie di confine di Berlino Ovest hanno ‘placcato’ lo spogliarellista per condurlo in una baracca di servizio."

Un uomo sconvolto, gravemente malato; fuggito praticamente alla vigilia della Caduta del Muro! Se avesse atteso qualche tempo ancora, sarebbe potuto recarsi in Occidente passeggiando con tutta la calma di questo mondo, senza rischiare di beccarsi una pallottola nella schiena. Ma chi poteva immaginare, allora…?

I NASTRI MAGNETICI / C

Poiché le mie condizioni incutevano paura, mi ricoverarono d’urgenza nella Clinica Universitaria di Berlino Ovest. Trascorsi un paio di mesi in completo isolamento; avevo una stanza tutta per me e, attraverso un piccolo apparecchio televisivo situato ai piedi del letto, potei seguire, incredulo, il processo della Riunificazione: gente che prendeva d’assalto il Muro, vi si metteva a cavalcioni e si lasciava cadere impunemente dall’altra parte.

Nel frattempo i medici cercavano di curarmi tramite un cannone al cobalto. Due quotidiani della metropoli prussiana riportarono brevemente la vicenda che mi vedeva protagonista, rispettando comunque il mio desiderio di anonimità. Sono certo che, nel clamore di quei giorni, gli articoletti passarono inosservati.

Quando venni rilasciato (il primario aveva allargato le braccia, come per dire: «Abbiamo tentato il possibile»), presi il primo treno per Amburgo e mi presentai alla famosa zia lontana. Era una signora matura, piuttosto indipendente. Di mestiere faceva la segretaria personale di un grosso imprenditore. Non ci misi molto a capire che un tipo come me stonava clamorosamente nel suo appartamento aperto alla gente del bel mondo, e mi preoccupai perciò di trovarmi in fretta un’occupazione.

Presi a faticare come manovale in un cantiere edile. Là, durante le pause di lavoro, mi toccava intrattenere gli eterogenei colleghi (turchi, rumeni, irlandesi, austriaci, bosniaci) con i soliti trucchetti di prestidigitazione. E fu là che venni scoperto da Ivàn, un intrallazziere russo che mi convinse a firmare un contratto per una serie di esibizioni in qualità di… "mago".

Ivàn organizzò in quattro e quattr’otto una tournée nell’Unione Sovietica fresca di glasnost: e rieccomi in viaggio.

Giunsi a San Pietroburgo per via mare, in un’alba frescolina di settembre.

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Il palcoscenico era suo. Sua la platea. Piegava oggetti, giocava abilmente con fiamme e raggi di luce, costringeva una bacchetta di metallo a trasformarsi in un’antenna ricevente di suoni e voci dall’etere… Ciò che affascinava maggiormente i visitatori del circo-tenda piantato nei pressi di Krasnovodsk, però, era il suo aspetto mostruoso. Bernhard acquisì vasta popolarità. I forestieri arrivavano a carrozzate e si accalcavano sotto il palco, annasponi. Non credevano ai loro occhi.

Tra un numero e l’altro, lui sbirciava malinconico verso l’altra grande attrazione del circo: la donna-lucertola. Una creatura delicata, dolce; aveva un corpo sproporzionato, come gonfio, ma i suoi movimenti risultavano agili e lascivi. Alla fine di ogni rappresentazione, entrambi venivano rinchiusi in celle separate: con la scusa di tenere lontani i curiosi. Nella sua, di cella, applicarono un chiavistello in più.

Ivàn non faceva che avvertire il custode del serraglio (una sottospecie di orangutàn): «Quello lì vale un perù. Se te lo lasci scappare ti spezzo le gambe!»

Un giorno arrivarono degli uomini dall’aspetto poco rassicurante, confabularono a lungo con Ivàn e alla fine caricarono Bernhard su un camion adibito al trasporto di bestiame.

«Finanziariamente siamo prossimi alla rovina», spiegò Ivàn all’interdetto uomo­bestia (così lo avevano denominato). «I quattrini dettano legge, perciò mi tocca cederti.»

L’uomo-bestia assunse un’espressione di dolorosa meraviglia, ma, docile, si lasciò sospingere in una gabbia.

Mentre l’autocarro scompariva oltre la curva, la donna dalle sembianze di lucertola, in lacrime, alzò una mano in segno di saluto.

I personaggi che lo avevano prelevato erano maneggioni moscoviti oscuri, bruti.

Adesso Bernhard si esibiva in un vecchio cinema appositamente riadattato, poco distante dal Gorkij Park. Per assistere alle innaturali capacità di "Qonk" (il nome d’arte che gli avevano affibbiato), la gente della capitale russa era disposta a spendere trecento rubli: una somma notevole per le loro tasche.

Qui Bernhard non aveva neanche il conforto della donna-lucertola. I suoi nuovi padroni non cercavano neppure di comunicare con lui. Bisbocciavano, ingrassavano; e, per la star dello spettacolo, solo un covaccio e una pappolata di cibo sfatto.

Mosca soffocava sotto una spessa coltre bianca. Dalla sua dimora ragnatelosa, Qonk osservava i bambini che pattinavano sul lago, e la solitudine gli stringeva la gola. In un pomeriggio di pallido sole, sopraffatto dalla malinconia, riuscì a svignarsela. Intendeva semplicemente compiere un giretto nei dintorni, prendere un’innocente boccata d’aria. Era vestito come un pezzente, ma, se non fosse stato per le malformazioni che gli deturpavano il volto e le membra, nessuno avrebbe fatto caso a lui.

Procedette per un po’ a zig-zag per evitare i punti in cui il selciato era stato svèlto. Gli operai se n’erano andati lasciando quelle buche dappertutto. Entrò quindi in una bettola, dove fu accolto da sguardi allucinati. Una servitrice gli recò controvoglia un bicchierino di kvas, che Qonk scolò in fretta. Mentre stava uscendo, uno degli avventori lo trattenne per una manica e gli domandò, a nome di tutta la compagnia:

«Njeuzjéli on bólen?» (Non è che è malato, per caso?)

«Ma no», borbottò lui. «Njet…» E, prima che qualcuno di quegli zombies dell’etilismo potesse appressarglisi troppo, arrancò via.

Al suo ritorno nello squallido cinematografo, i suoi "manager" lo accolsero a colpi di mazzapicchio. In particolare uno di loro, un omaccione ernioso e con i denti marci, gliele suonò come se volesse stenderlo per sempre. Bernhard sopportò e pensò: "Aspetta, aspetta…"

Poche ore dopo, puntuale, si esibiva con impareggiabile maestria. Fu la sua serata meglio riuscita. Gli spettatori alleluiarono, pretesero il bis. Volevano, ancora e ancora, del batticuore, emozioni violente… E Qonk non li scontentò. Saltò in mezzo a loro, sgambettò tra i ranghi ululando e facendo smorfie tremende, ruppe una sedia sulla testa dell’omaccione che tentava di riacchiapparlo e, tra donnette che svenivano e mariti che se la facevano addosso, infilò l’uscita.

Libero!

RITAGLIO DI GIORNALE / 2

Da un quotidiano francese: "Lo YETI vive! – La fronte bassa, le braccia lunghe, un aspetto oltremodo peloso: così appare lo yeti del Caucaso (‘Gorilla Almasty’) in un recente identikit. Poiché negli ultimi tempi le segnalazioni sull’uomo delle nevi si sono moltiplicate, si è costituito a Parigi un gruppo di esploratori russi e francesi che partirà per il Caucaso il prossimo luglio. Gli studiosi si prefiggono di raccogliere le prove definitive dell’esistenza del leggendario ominide e, se possibile, mettersi in contatto diretto con lui.

"Secondo il parere degli esperti di criptozoologia, lo yeti si muoverebbe eretto ma piegato in avanti, esalerebbe un odore acre e si ciberebbe di radici, rane e roditori. Non è ancora chiaro se Almasty debba essere considerato uno scimmione o il fratello minore dell’uomo di Neanderthal, estintosi 40.000 anni fa."

Visse per mesi allo stato brado. Le registrazioni risalgono a quel periodo. La sua salute andò peggiorando. I padiglioni delle orecchie si rimpicciolivano e gli si appiattivano alla testa. La larva radioattiva strisciava fuori, producendo strane infiorescenze. I pensieri di Qonk erano come uno sciabordio cervicale e, se si specchiava in un ruscello, vedeva, là dove la peluria era meno fitta, come la pelle andasse assumendo un colore giallo-brunastro. Inoltre, una membrana semitrasparente gli si formava tra gli avambracci e i fianchi.

In Russia prese il via una vera e propria sindrome dello yeti. Qonk, l’uomo-bestia, capitava ogni tanto in un villaggio sperduto, entrava in una casa o in un emporio e si riforniva di cibarie e merci varie. A quella povera gente gli venivano i crampi allo stomaco. Davanti al mostro chiunque arretrava, soprattutto quando questi, a causa di un riflesso incondizionato, digrignava i denti aguzzi.

Con il sopravvenire dell’autunno viaggiò, intabarrato fino agli occhi, nella calca sudata e vaporosa di un obshchi vagon delle ferrovie sovietiche. Arrivò a Riga, che si trovava sotto il segno di Giove Pluvius (o come altro lo chiamano da quelle parti). Per ripararsi dall’acquazzone, entrava e usciva da osterie e spacci di bevande, simile a una mummia rediviva. «Drasticvzva, dobrizije», lo salutavano. Nessuno fu tanto curioso da domandargli come mai fosse tutto coperto di bende e di stracci.

«Ha fame?» lo interpellavano, pietosi.

«Nuoci, nuoci» (tantissimo), abbaiava lui.

«Ma… sta bene per davvero?» s’informavano i più indiscreti.

«Tag.» (Bene!)

Parevano desiderare che pure quel disgraziato prendesse parte alla bolsce-vita. Gli ponevano dinanzi un liquore. «Na zdorovje!» (Alla salute!). Lui stava lì immobile. «Beva!» lo esortavano in coro. Oppure: «Govorite zje!» (Parli! Dica qualcosa!) Ma Qonk attendeva che si allontanassero prima di scostare la sciarpa che gli ricopriva la parte inferiore del viso e portarsi il bicchiere a quel che gli rimaneva delle labbra, o ingurgitare qualche cucchiaiata di minestra. A tratti, un lembo del sudario scivolava via

o si disfaceva, mettendo in mostra le piaghe aperte come bocche di un vulcano. Allora si spaurivano. «Cernobyl», sussurravano.

Per dormire si spingeva in aperta campagna, dove si cercava una qualche porcareccia. Ma là fuori bisognava che stesse sempre all’erta: i contadini, si sa, sono individui smaliziati. E una notte, difatti, una giovane e robusta matrioska lo sorprese senza panni addosso. Il sorrisetto iniziale sulla faccia della contadinotta svanì; seguì una pausa. Quindi, uno strillo si levò alto. Pochi minuti dopo, una processione di uomini armati di coltelli e fiaccole dava la caccia al mostro…

Ad acciuffarlo, ancora una volta, fu un intrallazziere. Si trattava di un ceceno che fumava sigari cubani e che pensò di vendere l’uomo-bestia all’estero per racimolare alla svelta della valuta forte.

Qonk aveva la fronte imperlata di sudore, la tensione gli martellava il cranio dal di dentro. Con occhi fuori dalle orbite, osservava guardingo a dritta e a manca: istantanea e irriducibile paura del mondo circostante. Di notte origliava il silenzio dell’infinito, mentre di giorno, da un oblò sul fondo della stiva, seguiva il monotono alternarsi di mare e cielo.

Mare, enorme reliquia di primitive catastrofi; mare, il caos. Ah! Così tanta acqua e non ci si può dissetare!

La nave-lazzaretto entrò nella baia di Y… L’Australiano aspettava insieme a tre rappresentanti del corpo sanitario, che erano stati convocati in tutta fretta sul molo. Il fumatore di cubani, ritto sul ponte della "Sfinge delle Onde", nello scorgere la figura imponente e sicura dell’Australiano ebbe un moto d’ira. Con un gesto brusco gettò il sigaro in mare e imprecò tra sé e sé: «Ma che stiamo combinando?» Durante l’interminabile traversata si era un po’ affezionato all’uomo-bestia. Ora quello pisolava nel suo cantuccio pieno di escrementi. «Quando si sveglierà», si disse l’uomo sul ponte, depresso, «non voglio che mi veda.»

L’uomo-bestia accolse l’Australiano e gli altri visitatori placidamente, senza lasciarsi irretire dal rumore che facevano sopra la sua testa. Si mosse appena quando qualcuno, sporgendosi dallo sportello in alto, gli sparò un ago nella coscia. L’ago gli si conficcò sotto l’epidermide di cuoio, strappandogli una sorta di guaito. Per via dell’effetto dell’anestetico, rimase tranquillo anche quando gli tolsero le catene e quattro o cinque uomini si adoperarono per spingerlo dentro una gabbia.

Con pupille che fissavano strabicamente attraverso le sbarre robuste, rivisse come in un sogno il viaggio a tappe che il tizio con il sigaro gli aveva fatto compiere: dapprima su un camion di marca “Trud“, poi su un treno e infine sulla "Sfinge", uno sgangherato bastimento della Sov-Trasporti. L’ultima parte del viaggio era stata la meno terribile, in quanto, se non altro, il fumatore di cubani aveva cercato di parlargli, di consolarlo, trattandolo umanamente. Ma dov’era adesso quell’amico?…

La gabbia gli stava troppo stretta, lo stomaco brontolava e nessuno sembrava più ricordarsi di dargli del cibo. In un angolo dell’umida stiva putrefaceva il cadavere di un ratto.

Quando una gru sollevò la gabbia e la sospese al di sopra del molo, Qonk capì. Come un delfino ferito a morte, agitò le ali e guizzò di qua e di là. Reso cieco dal medicinale e dalla rabbia impotente.

Sul Quinto Continente cominciò a lavorare in un carrozzone da fiera, per finire poi allo zoo di Camberra. Dopodiché fuggì, o fu fatto fuggire, anche da quella prigione. Settimane dopo, i marinai di un peschereccio danese si terrorizzarono alla vista della creatura che avevano tratto dalle acque del Baltico. Un pesce strano, grosso, quasi pachidermico, apparentemente senza branchie; un uccellaccio pressappoco, interamente ricoperto di alghe e di mitili. Tutti rimasero a bocca aperta quando il pesce, a gesti, reclamò una penna e della carta e soprattutto come, ottenuteli, scribacchiò con pinne frementi le parole: "Il mio nome è Bernhard Rasch"…

Il medico di servizio al porto di K…, nello Jutland, confermò che il mostro non poteva appartenere né a una specie ittica né tantomeno al popolo dei cieli, bensì era, presumibilmente, un parente stretto della razza umana. Fu avvertita la polizia, che prese a far indagini su quel certo Bernhard Rasch e poté ben presto scoprire che un cittadino con questo nome esistiva o era esistito realmente: nell’ex Repubblica Democratica Tedesca.

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Bernhard Rasch, Qonk, l’uomo-bestia, fu rimpatriato e ceduto alla "BIOMODELLE GmbH", una ditta farmacologica del Brandenburgo. Nuovamente in gabbia…

Un occhio si staglia nel quadrato dello spioncino. Dentro la cella blindata, l’ombra s’intozza e si allarga, si getta inquieta da una parte e dall’altra e incute persino più paura del corpo, che nella sua arida nudità di ibrido ripugna e allontana, ma non uccide.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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